Perché è difficile trattenere i ‘talenti’ negli studi professionali?

Perché è difficile trattenere i ‘talenti’ negli studi professionali?

Perché è così difficile attrarre e trattenere i talenti negli studi professionali?

L’urgenza di trattenere talenti e competenze apre finalmente le porte degli studi professionali a riflessioni indispensabili.

Le ragioni dietro questa difficoltà sono tante, individuali e non:

  • Quanto alle prime, il consiglio è sempre quello che suggeriscono HR e recruiter: ascoltare le persone è il modo più efficace per comprendere il presente e averle al nostro fianco. E proprio le parole delle persone che se ne vanno particolarmente preziose, perché hanno riflettuto molto sull’esperienza di collaborazione con lo studio e spesso vogliono davvero contribuire a fare in modo che migliori quel che non ha funzionato con loro.
  • Rispetto a quelle “di sistema”, è ragionevole affermare che ancora le riflessioni che gli studi fanno circa la loro capacità di trattenere i talenti che hanno selezionato e formato negli anni sono ancora a uno stadio che potremmo definire embrionale.

I ‘bias‘ nella libera professione

Per lo più questo accade perché prevalgono, ancora nel 2024, parecchi bias:

  1. Quello secondo cui “nessuno è insostituibile“, e quindi si può continuare ancora nel 2024 a diffidare degli strumenti di gestione del business che provengono dall’azienda (tra cui possiamo includere le competenze manageriali e soft, che non fanno parte della formazione del giurista e che raramente sono appannaggio del Top Management degli studi).
  2. Quello secondo cui l’offerta di professionisti desiderosi di entrare in squadra è (e sarà sempre) superiore alla domanda dello studio/del dipartimento stesso. In realtà, come tutti gli studi han potuto verificare già nel 2023, non è così immediato sostituire chi se ne va. Che poi, anche se lo fosse, la perdita secca che si paga per rimpiazzare una persona che sarebbe potuta rimanere si sostanzia in molti costi certi (ricerca e selezione della nuova risorsa, tempi di inserimento, effetti sul team – motivazione, sfiducia nella capacità dei vertici di trattenere i talenti, carico di lavoro, know how perso… -, investimenti sprecati in progetti di cura delle persone…). Maggiori, molto probabilmente, di quelli che si sarebbero affrontati per trattenere e valorizzare il collaboratore competente e disposto a restare.
  3. Quello secondo cui promuovere le persone sbagliate non ha un impatto sui collaboratori meritevoli. In particolare, si pensa che questi ultimi saranno disposti a chiudere un occhio, e a volte anche due, specie quando per loro “there is no planet B“. Mi riferisco in particolare a quei professionisti che, non avendo clienti, temono che non ci sarebbe un’altra realtà disposta a pagar loro lo stesso compenso per cui la (pur temporanea) stabilità garantita dallo studio “storico” annullerebbe la loro delusione e il loro giudizio critico.
  4. Quello secondo cui la consapevolezza che la libera professione non funziona come l’azienda (meglio noto come – “Se vuoi fare l’impiegato…”) porterebbe i professionisti “senza portafoglio” a non attivarsi per individuare/creare altre realtà professionali che sappiano valorizzarne il contributo e la differenza che fa averli in squadra perché è inevitabile che non ci sia trasparenza nei percorsi di carriera.
  5. Quello secondo cui nella libera professione si è tutti competitor e non si vince insieme, per cui riconoscere il valore effettivo di un membro del team vorrebbe automaticamente dire affermare noi di essere sostituibili e quindi immeritatamente posizionati sui propri collaboratori.
  6. Quello secondo cui la libera professione è e deve essere sofferenza e dedizione incondizionata, per cui ogni istanza di benessere nelle mansioni e nelle relazioni (a partire dal cosiddetto ‘smart working‘, ormai cancellato in tante realtà) rivela poca lealtà alla causa che impone, invece, una dedizione 24/7.

Ora, che la professione sia un mondo a sé è innegabile. Perché queste sono solo alcune delle “distorsioni” tipiche di questo mondo. Ce ne sono parecchie altre che riflettono gli approcci generazionali, le questioni di genere, le aree di ‘practice‘, le dimensioni dello studio…

Il focus sulla cultura di studio

La distanza tra le intenzioni e la pratica

Quel che accade oggi è che è diventato appunto interessante comprendere come è possibile attrarre e trattenere persone nel mondo legale se queste sono le premesse.

La cultura dell’organizzazione è inevitabilmente influenzata dai ‘bias‘ elencati, che improntano i comportamenti di molti.

Ne consegue che i progetti di cura delle persone e di sviluppo delle loro potenzialitàche gli studi pur promuovono spesso sono inefficaci.

Penso ad esempio

  • ai corsi per rinforzare le soft skills delle persone (e la leadership più di tutte è interessante, perché pare che non si vogliano collaboratori leader) che incontrano l’ostilità o comunque il mancato riconoscimento dei vertici;
  • agli assessment effettuati da società di consulenza di primo piano per saggiare il potenziale dei collaboratoriche però non vengono tenuti in considerazione in fase di valutazione della performance; o, ancora,
  • alla promozione di abilità di business development che sono di fatto ostacolate dal fatto che lo sviluppo di una propria clientela ha per limite primo la mancanza di tempo se si viene valutati innanzitutto in termini di ‘billing performance‘ e ‘occupability‘ …

Gli effetti di quella distanza

Così, piano piano, aumenta, il novero dei professionisti disincantati, e si alimentano inevitabilmente insoddisfazione, minor produttività e turnover nelle realtà con cui collaborano.

Anche gli stessi sistemi di valutazione della performance spesso non facilitano il superamento delle dinamiche descritte. Infatti, pur essendo strumenti elaborati per valorizzare il contributo dei professionisti, la loro implementazione negli studi sconta ancora rigidità piuttosto serie connesse al fatto che il Top Management fatica ad attenervisi e a mantenere livelli di trasparenza tali da assicurare al processo una percezione di attendibilità ed equità.

Da dove iniziare a fare qualcosa di diverso?

Gli strumenti, appunto, ci sono già e vengono più o meno efficacemente mutuati dal mondo aziendale.

Fortunatamente non dobbiamo reinventare la ruota da soli.

Quel che serve per trattenere i talenti negli studi professionali oggi, probabilmente, è riflettere su questa semplice, immediata, strategia di carriera – che comincia a sentirsi più spesso nei colloqui a valle del processo di valutazione:

Investo in studio quanto lo studio investe in me“.

L’ennesimo ‘bias

Credere di poter trattenere i talenti senza ascoltare né intercettare le aspettative delle persone, puntando solo sulla loro passione per quello che fanno e sul loro spirito di sacrificio è un metodo di corto respiro.

Per un verso, perché non evita che le persone demotivate cerchino altrove chi è disposto a valorizzarle e farle crescere.

Per l’altro, ed è pure forse peggio, garantisce che si avranno in studio persone, appunto, insoddisfatte e scarsamente disposte alla collaborazione. Il che porta di certo a risultati inferiori dello studio nel medio-lungo termine. Oltre al fatto che, a tendere, resterà in studio chi non ha trovato di meglio o chi non ha ragioni per allargare la propria zona di comfort.

Quindi, oltre a non raggiungere l’efficienza economica, si avranno in squadra persone disilluse e demotivate che avranno un peso determinante sull’efficacia e le credibilità di ogni iniziativa di valorizzazione delle persone e del talento.

Conclusione

Vista in questa prospettiva, lavorare sulla cultura di studio e sui ‘bias‘ che la zavorrano è urgente.

Lavoro che si giova significativamente del supporto di consulenti esterni alla squadra che, da fuori, aiutano chi è coinvolto in prima persona – spesso anche come ambasciatore anche inconsapevole dei ‘bias‘ citati – ad aggiustare il tiro e declinare nella realtà dello studio cosa significa investire nel talento.

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