Il “Big Stay” dopo il “Big Quit” e il “Quiet Quitting”: cosa sta succedendo nel mondo del lavoro?
Proprio così: le “Grandi Dimissioni” e il “Quiet Quitting” – che hanno caratterizzato il periodo post pandemico – starebbero cedendo il passo alla tendenza detta “Big Stay”, che porterebbe i lavoratori a restare dove sono, pur insoddisfatti.
Si notano infatti un minor numero di licenziamenti dei dipendenti e un minor numero di nuovi posti di lavoro, come hanno messo in luce i dati di ADP Research, società leader di soluzioni aziendali per HR. La ricerca, condotta in USA nei primi mesi del 2023, ha rilevato che le posizioni aperte sono diminuite del 20% rispetto al 2022. E che ultimamente le persone che hanno lasciato il lavoro sono state solo il 5% del totale degli occupati.
Ma cosa sta succedendo nel mondo del lavoro?
Se il business as usual non è più as usual
Tutti, di recente, abbiamo sentito la pressione a ripensare come spendiamo il nostro tempo, complici (i) l’aumento delle ore, (ii) del ritmo e (iii) della mole di lavoro, e la crescente incertezza diffusa.
In più, spesso, la mancata chiarezza rispetto a quando è davvero necessario presentarsi in ufficio (meeting specifici, progetti di collaborazione, formazione in presenza, programmi di tutoring/mentoring….) riduce la flessibilità garantita dal lavoro ibrido.
Permane, infatti, la percezione che chi sta in ufficio a oltranza “ci tiene di più”, ed è di conseguenza destinato a maggior successo. Tanto più se il manager ha ripreso a venire in presenza tutti i giorni – per esigenze sue (per la serie: “Se non può stare a casa “lei/lui, figurati i sottoposti!”).
La filosofa Maura Gancitano ci offre una misura delle nostre fatiche: “Il lavoro ha occupato uno spazio enorme nelle nostre vite, ha colonizzato la nostra testa, viviamo come performative anche altre dimensioni dell’esistenza, probabilmente in molti se stanno a casa a fare niente si sentono in colpa. Questa sorveglianza mentale di sé non è naturale, è culturale. E’ un sovraccarico mentale che affatica: il 62% delle persone in questo paese è a rischio burnout“.
“Big Stay” vs “Big Quit”
Non a caso, dunque, si starebbe affermando il “Big Stay”, che interessa per lo più i colletti bianchi.
Perché è preferibile non andarsene nonostante la frustrazione e la perdita di entusiasmo?
Per tante ragioni. “Percepiamo ogni fine come un lutto prima ancora che come una nuova promessa, i traslochi ci fanno ammattire, le separazioni e le partenze un po’ morire, il nuovo lavoro, anche se è quello che volevamo da tutta la vita, ci terrorizza e ci fa venire voglia per due minuti di regredire alla condizione di schiavi dell’antica Roma, pur di non assumerci responsabilità per le quali temiamo di non esser all’altezza” scrive Stefania Andreoli in “Perfetti o felici” (BUR Rizzoli, 2023), parlando d’altro. Evidentemente funzioniamo così.
E ci si convince presto che cambiare è più dura che restare. Perché la decisione di lasciare potrebbe rivelare una calibratura sbagliata delle priorità e un costo insostenibile in termini di (i) relazioni (è più difficile stringerne, nel mondo di oggi), (ii) status (di ruolo, di visibilità), (iii) possibilità di lavoro ibrido e (iv) chance di valorizzazione del nostro contributo.
Davvero rimanere senza provare a migliorare le cose è l’opzione migliore per tutti?
È chiaramente un momento complicato, per gli individui e per le organizzazioni.
Certo la rinuncia del singolo alla soddisfazione professionale (che è fatta anche di senso di appartenenza, di riconoscimento e di responsabilità) costa molto anche all’organizzazione con cui collabora, che si trova a contare su persone demotivate e refrattarie a cambiare, ad innovare e a mettersi in gioco.
Peraltro le emozioni sono “contagiose”, per cui mettere le persone nella condizione di non essere ascoltate genera inevitabilmente un clima di negatività e scarsa fiducia che, in tempi di “Big Stay”, va da sé che si autoalimenta.
Dove puntare per raddrizzare la rotta?
Dal rinforzare una skill specifica, la capacità di esprimere aspettative con efficacia. Anche se sembra paradossale, perché dar voce a chi ha perso l’entusiasmo per quel che fa potrebbe sembrare sabotaggio. O autosabotaggio.
In realtà, questa competenza si consolida parlando e interagendo attivamente, confrontandosi, mettendo in campo chiarezza e consapevolezza, ascoltando e riuscendo a far sentiti ascoltati i propri interlocutori. In un one-to one, in un meeting, in un talk, come anche dal fioraio. E qualsiasi organizzazione trae vantaggio da persone allenate a comunicare così.
Compete all’organizzazione questo cambio di rotta per facilitare il processo di accrescimento della consapevolezza individuale?
++ Sì e no ++
Innanzitutto: Lifeed, società italiana di EdTech fondata da Riccarda Zezza, registra che solo il 30% dell’allenamento delle soft skills avviene sul luogo di lavoro. Quindi la prima risposta è: se anche l’organizzazione non promuove iniziative, molto è possibile fare da soli. Ché nel lavoro la responsabilità di fare sul serio la sentiamo comunque: è la dimensione in cui trascorriamo gran parte del nostro tempo ed è anche quella in cui investiamo più consapevolmente, per cui sì che vale provarci, a vivere davvero.
Ciò detto, questa è la classica domanda che emerge in sede di consulenza, e un po’ dice: “Non sarà che se formo le persone “troppo”[ad esempio, appunto nello “speak out”], poi mi chiedono cose impossibili?”.
Ma quando mai qualcuno ha preteso cose oggettivamente insostenibili ed è riuscito a ottenerle solo per averle chieste bene, senza impegnarsi? In più: nella situazione congiunturale che si è creata nel 2023, qualcuno chiede ancora l’impossibile? Per poi magari trovarsi, a quel punto, per un’asserita coerenza con sé stessi, a vivere ancora più tensione, o ad andarsene senza un piano B?! Abbiamo già assistito tutti a episodi simili, e non solo non ci è venuta gran voglia di schiantarci nello stesso punto, ma abbiamo compreso più il diniego che la minaccia.
Il “Big Stay” esclude che le persone esprimano aspettative?
Il fenomeno del “Big Stay”, tuttavia, sembra escludere che le aspettative siano manifestate anche quando possibili da realizzare.
Sicché il vero tema diventa: se un collaboratore esprime con consapevolezza le proprie aspettative (magari ambiziose, ma legittime), crea davvero un danno all’organizzazione?
Per un verso, sappiamo che chi manifesta le proprie attese si pone automaticamente nella condizione di conoscere quelle dell’altro nei suoi riguardi. Perché chiedere di esser ascoltati, di fatto, ci rende disponibili ad ascoltare, anche solo per mettere a fuoco quel che serve per dare concretezza a quanto si desidera.
Facilitando che questo accada, l’organizzazione viene a trovarsi nella condizione di conoscere meglio le leve motivazionali e le esigenze delle sue persone, ovvero a poter assumere decisioni di cura del talento più efficaci e mirate (e quindi più economiche).
In più, allenando il dialogo tra chi afferma le proprie esigenze e chi si trova a gestirle, preparando entrambe le parti a una collaborazione e una comunicazione efficaci, porta l’organizzazione a riscuotere un dividendo in termini di fiducia e coinvolgimento che non si esaurisce nel momento di scambio, ma crea i presupposti per riscuoterne altri.
In conclusione, più che adagiarsi sulle prospettive di un “Big Stay” apparentemente comodo per tutti, sembra più funzionale lavorare (individualmente e nelle organizzazioni) per l’espressione di aspettative chiare, reciproche, che porti magari a un riequilibrio delle stesse, ma avvicini anche le persone a sentirsi nuovamente coinvolte e a desiderare di far parte di quest’epoca. Che è come è, ma ha un primato che la rende preziosissima: è il nostro tempo, lo stiamo vivendo noi.
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