Perché non farsi bastare il “Big Stay”?
“Big Stay” e soddisfazione professionale
Ultimamente il mondo del lavoro si interroga su un nuovo fenomeno, il cosiddetto “Big Stay“. I dati raccolti negli Stati Uniti nei primi mesi dell’anno sembrano infatti dimostrare che – nella grande incertezza attuale – i lavoratori preferiscano restare dove sono, pur insoddisfatti. Le “Grandi Dimissioni“, insomma, sarebbero ormai il passato – si son rivelate deludenti o più difficili da sostenere di quanto sperato – e il “Quiet Quitting” (la decisione di ridurre il proprio contributo il più possibile) non fa comunque per tutti.
Ma davvero dobbiamo farci bastare il “Big Stay” e mettere una pietra sopra alla nostra soddisfazione professionale?
L’effetto farfalla
L’effetto farfalla spesso si innesca quando constatiamo che l’organizzazione ha disatteso le promesse di valorizzazione del nostro contributo e delle nostre competenze, di solito a valle del performance assessment travagliato.
Del resto, sostenere una strategia ambiziosa di investimento sulle persone è diventato molto oneroso (e tagliare il costo del lavoro resta sempre più facile che innovare). Si sa.
Sicché, d’un tratto, capita di realizzare di non esser mai stati davvero visti (nel presente) né previsti (in prospettiva) come giocatori che fanno la differenza. E quando ci si rende conto che il “posto fisso” (quello cioè che non avevamo mai messo in discussione) non ci porta il benessere e la realizzazione che credevamo, il risveglio è piuttosto brusco.
Fare a meno di una certezza che ci ha cullato per anni può sembrare un salto nel vuoto. Anche quando non porta subito (né, magari, direttamente) a prendere la porta, o a cercare un impiego che ci includa davvero.
Il business as usual: scegliere di (non) decidere
La nuova consapevolezza sbarra la strada, di fatto, all’abitudine molto tranquillizzante di rimandare e ignorare le “grandi
domande” (per la serie “Sto spendendo bene il mio tempo, che è una risorsa limitata?”) con grandi dosi di “business as usual”.
Tutti sappiamo che per essere soddisfatti sul lavoro tocca affrontare scelte continue ed effettuare precise calibrazioni tra priorità, obiettivi e risorse a nostra disposizione (come il tempo). Solo che farlo è faticoso, e siamo già molto affaticati in questa fase storica. Di fatto lavoriamo quasi tutti “sotto organico” (al di là delle incomprensioni generazionali, la popolazione lavorativa nei paesi avanzati sta diminuendo), e siamo tutti stressati dall’impatto della tecnologia e dell’intelligenza artificiale sul nostro ruolo.
Inesorabilmente, però, in questo “Big Stay” si fa strada una nuova, grande domanda diventa: “Andare avanti e accumulare altri costi irrecuperabili o tagliare una volta per tutte le perdite?“.
Perché rimandare le scelte che contano ha un prezzo ben preciso: il costo opportunità che si paga per non aver già iniziato a investire in altro.
Oltre il “Big Stay”: l’inizio di un nuovo capitolo
Il day after – quello in cui ci si sveglia con la consapevolezza che non si è soddisfatti e qualcosa va fatto da noi, e che prima è meglio di poi – è anche l’inizio di un nuovo capitolo di una vita professionale lunga.
Una carriera che dura parecchi decenni e che, oggi sappiamo, può che includere periodi di pausa, di formazione, di sperimentazione, per contribuire a costruire un quadro completo delle esperienze e delle competenze che vogliamo vivere e rendere nostre.
In un momento in cui si è sparsa in giro la voce che il futuro non c’è più, anche un’occupazione “ponte” – che concede stabilità finanziaria mentre si e
splorano nuove opportunità -, può essere preziosa. Magari non è il lavoro dei sogni, ma aiuta comunque a sostenere la nostra “ricerca della felicità” (lavorativa).
Che poi, molto probabilmente non ce ne sarà uno solo (di day after) e forse questo non sarà nemmeno l’ultimo. Meglio allenarsi, quindi, investendo in autenticità e soddisfazione.
Perché ridiscutere decisioni prese in un contesto molto diverso da quello attuale non è perdere, ma scegliere ancora. Non farlo, invece, può voler dire perdere tempo. E chi ha paura di essere in ritardo (nella vita, nella carriera come anche nel proprio percorso verso la felicità e la soddisfazione di sé) non dovrebbe perdere (altro) tempo, no?!
“Dobbiamo usare il futuro come motore che ci spinge avanti e non come muro contro il quale sbattere”. (G. Nardone)
Il futuro c’è, si ripete il giorno dopo, la volta successiva… Una fonte rinnovabile, insomma.
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